Da "Rinascita" del 22.06.2011 - Intervista

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Minatori nostri Le piccole realtà del Sud svuotate degli uomini costretti a cercar lavoro. La storia sembra ripetersi.
Intervista a Nicola Mallamaci, amministratore del sito dedicato ai minatori di Motta San Giovanni

Una realtà, quella di un piccolo centro chiamato Motta San Giovanni (circa 6 mila abitanti) della provincia di Reggio Calabria, che ha una testimonianza forte, per numero di lavoratori e di caduti nelle miniere. Mi conferma tale fenomeno?

Si. I caduti sul lavoro sono stati 35, documentati per nome e data..

Oltre agli incidenti durante l’attività lavorativa, c’è un aspetto poco conosciuto: quello dei morti per silicosi (inalazione eccessiva di polvere contenente biossido di silicio) negli anni successivi anche alla pensione. Può approfondire?

Effettivamente, questo effetto è poco conosciuto, in quanto non eclatante. L’ammalato di silicosi si spegne lentamente, giorno per giorno (mio padre compreso); il respiro si fa sempre più corto, affannato, pesante. La maggior parte di loro non ha avuto il tempo di poter godere della pensione, in quanto soffocati dalla malattia.

Quanto incise, a livello economico, per il paese, l’esodo di massa all’estero per lavorare in miniera?

Nell’immediatezza dell’esodo, l’economia del paese, prettamente agricola, ha subito un brusco calo. Infatti, gli effetti di tali sacrifici, sono stati percepiti parecchi anni dopo, al momento del rientro e pensionamento dei minatori.

Fu davvero così massiccia e ferale questa migrazione maschile, tanto da lasciare Motta San Giovanni privo di uomini? La comunità rimase composta soltanto da donne e bambini?

Il lavoro da minatore ha sempre coinvolto i giovani Mottesi, al punto tale che, dal dopoguerra agli anni settanta, la migrazione interessò quasi totalmente la popolazione maschile. A causa di ciò e considerato che i rientri a casa dei minatori erano sporadici (solo in occasioni di festività e/o casi particolari), la comunità, per circa 30 anni, rimase composta da donne e bambini.

Quali furono gli effetti sociali di questa situazione, quanto fu stravolto il tessuto sociale?

L’assenza della figura maschile, dovuta alla lontananza per lavoro, ha innescato un fenomeno fino a quel momento sconosciuto: la famiglia guidata dalla madre. Tale fenomeno ha fatto ricadere sulla donna (moglie o figlia maggiore) tutta la responsabilità a gestire l’economia domestica, l’educazione dei figli o fratelli, le proprietà, i rapporti con la società che, prima, erano di esclusiva competenza maschile.

Può reggere il paragone con quelle comunità, anche del remoto passato, in cui le donne, prive dei mariti e dei padri, si dedicavano alle attività prettamente maschili sopperendo al vuoto?

Sicuramente il paragone regge bene, in quanto la donna, per un lungo periodo, si è dedicata alle attività prettamente maschili.

I giovani di oggi, i nipoti e i figli dei minatori di ieri, sono sensibili alla memoria dei loro avi?

La memoria viene conservata bene nelle generazioni di oggi, anche se, inevitabilmente, lo scorrere del tempo tende a diluire il ricordo. E’ in queste more che è nata L’Associazione Minatori Mottesi “Commemorare per Ricordare”, al fine di mantenere vivo il ricordo di quanti si sacrificarono per migliorare le loro (e le nostre) condizioni di vita.

Come considera il rapporto e la sensibilità delle istituzioni nei confronti dei minatori del suo *paese e nei confronti degli orfani?

Il rapporto dei minatori con le istituzioni è cominciato a migliorare negli anni 60, quando si cominciò ad avere coscienza della gravità della situazione. Infatti, in quegli anni, si cominciarono a vedere gli effetti della silicosi sui minatori ed il giusto riconoscimento come malattia professionale e, quindi, remunerata come indennizzo. Di questo passaggio, hanno goduto tanti giovani (figli di minatori), riconosciuti come categoria protetta.

So che nel paese è stata realizzata una “piazza del minatore”, quanto pensa che la simbologia del posto costruisca la memoria storica?

La realizzazione della Piazza del Minatore è stato un atto di ringraziamento a tutti coloro che si sono sacrificati per lo sviluppo del paese e della Nazione. Passando da tale piazza, non si può non pensare a coloro che sono andati a cercare lavoro nelle miniere e gallerie di mezzo mondo. La statua di un giovane minatore ivi presente, alla base, reca una scritta che racchiude l’essenza stessa del perché è stata realizzata: “Impasto di prestanza, miniera dì altruismo, agonizzando vive i sui vent’anni senza futuro”. In ultimo e non per importanza, la piazza è stata inaugurata dal Presidente della Repubblica, On. Giuseppe SARAGAT nel 1966.

Pensa che le severe e rischiose condizioni, in cui vivevano i minatori sottoterra, abbiano cementato la solidarietà fra i poveri uomini e colleghi? Forse più di quanto facciano i lavoratori di oggi, seduti su comode poltrone, alle prese con il carrierismo e la competizione del collega accanto?

Come raccontavano i vecchi minatori, la solidarietà era proverbiale: in nessun caso si devono abbandonare i “soci” di lavoro. A tal proposito, riporto, per sintesi, un caso (ampiamente trattato nel sito) e che la dice lunga sulla solidarietà dei minatori. Nel 1950 aTroina (EN), mentre si stavano realizzando delle gallerie per la diga Ancipa, avvenne uno scoppio che uccise quattro minatori. Un minatore mottese, pur consapevole del rischio che correva, entrò per primo nella galleria per cercare di dare aiuto; al terzo tentativo rimase ucciso dalle esalazioni del gas. Tale minatore, rispondeva al nome di VERDUCI Carmelo, aveva 42 anni ed era padre di nove figli. Per tale atto eroico, è stato insignito della Medaglia d’Oro al Valor Civile. Oggi, credo sia particolarmente difficile poter trovare qualche cosa di simile, anche tra lavoratori meno titolati di quello in esempio.

Gli uomini di Motta fuggirono in massa perché senza lavoro e senza prospettive, costretti ad accettare condizioni durissime, rischi e paghe basse; la situazione attuale (seppur diversa e mitigata), con un tasso di disoccupazione da primato rischia, secondo lei, di riproporre una condizione speculare con quella dei vostri minatori?

I sacrifici a cui furono sottoposti i mottesi non furono vani. Hanno consentito la realizzazione di un sogno ricorrente: poter mandare i figli a scuola. Tuttavia, il realizzarsi di tale sogno e l’atavica mancanza di lavoro, ha fatto si che la storia continuasse a ripetersi: ancora emigrazione (ancora oggi). Questa volta sono stati coinvolti tantissimi giovani, diplomati e laureati.

Quanto pensa sia servito il sacrificio dei minatori italiani del passato?

Le condizioni lavorative, a mio avviso, sono molto cambiate rispetto al passato; I racconti dei minatori erano tutti uguali ed in qualsiasi cantiere italiano e/o estero: sicurezza zero, condizioni igieniche scarse, alimenti scadenti, turni di lavoro estenuanti (molte volte, per scelta, doppio turno). Oggi, cose del genere sono visibili solo nei reportages dei paesi del terzo mondo.

Cosa ne pensa dell’aspetto turistico-culturale per alcune delle miniere italiane divenute, oggi, musei e spazi in cui approfondire la conoscenza dell’attività estrattiva, le condizioni di lavoro e gli strumenti adottati in circa due secoli di storia italiana?

L’apertura di questi spazi al turismo, può rappresentare un momento in cui è possibile cercare di far comprendere ai visitatori la vita dei minatori se si parte dal fatto che la maggior parte dei visitatori conosce ben poco di questo mondo. L’impresa è certamente ardua, in quanto, già “Noi” figli di minatori, facciamo molta fatica ad immedesimarci nel momento dell’entrata in galleria e/o miniera.

Lo spazio che i media dedicano all’argomento è, secondo lei, adeguato, sufficiente e rispettoso della memoria, oppure servirebbe una maggior sensibilità all’argomento?

Purtroppo, i media si interessano a questo lavoro solo quando fa “notizia”; diversamente, è difficile che si legga un articolo riferibile ai giorni nostri oppure alla memoria.

In sostanza: il Paese è in debito con i suoi minatori? Quanto deve a loro questo vecchio centocinquantenne?

Certamente i minatori mottesi hanno apportato un contribuito non indifferente allo sviluppo del vecchio centocinquantenne e, conoscendone personalmente tantissimi, mi sento di poter affermare che in qualsiasi località, dalla Sicilia al Trentino, è difficile trovare una galleria, un acquedotto, una miniera in cui non vi abbiano lavorato almeno un Mottese.

MARCO MANAGO'

Intervista originale su: www.rinascita.eu

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